La poetica di Springsteen

«La mia musica ha sempre voluto misurare la distanza tra la realtà e il sogno americano.»
(Bruce Springsteen nel 2005 durante la tournée per Devils & Dust)

Per la carica evocativa delle sue canzoni, Bruce Springsteen è stato accostato agli storici «storyteller» («narratori») americani come Woody Guthrie, Pete Seeger e Bob Dylan. Le storie che racconta sono state lette come paradigmatiche delle dinamiche sociali statunitensi, con un forte risvolto collettivo che ha contribuito ad aumentare la sua reputazione di osservatore privilegiato della realtà del suo paese, al punto che col tempo il cantante ha potuto spendere la sua autorevolezza anche in campo politico. Considerando la specificità della cultura americana dove musica popolare e colta coabitano in armonia, Springsteen è stato avvicinato anche alla grande letteratura: il corpus delle sue canzoni è ritenuto in tal senso «una sorta di Grande Romanzo Americano». I suoi brani, pur essendo ambientati in luoghi a lui familiari o tratti direttamente dalla sua esperienza, presentano vicende non necessariamente autobiografiche, in cui il musicista assume spesso la funzione di voce narrante.

A partire dagli anni ottanta, e in particolar modo dopo il disco The Rising del 2002, il cantautore è stato oggetto di studio per la sua incidenza nella letteratura americana, per la sua visione politica e sociale, nonché per il suo ruolo di ispiratore di un movimento di rinascita dopo gli eventi dell’11 settembre. L’artista del New Jersey è uno degli esponenti della musica popolare a cui sono stati dedicati più libri biografici, saggi di critica e tesi universitarie, superando in questo tanto Dylan quanto Presley.

La scrittura di Springsteen è stata definita «cinematografica». Nella sua produzione hanno esercitato una considerevole influenza alcuni film come Badlands di Terrence Malick (La rabbia giovane in italiano), da cui è tratto il titolo di una sua celebre canzone, e libri come Furore di Steinbeck, mediato però dalla visione dell’omonimo lungometraggio di John Ford. Molte storie narrate nelle sue canzoni ricalcano quelle della scrittrice Flannery O’Connor, che Springsteen conobbe attraverso il film La saggezza nel sangue (Wise Blood in originale) ispirato all’omonimo romanzo dell’autrice della Georgia. I pezzi The River e A Good Man Is Hard to Find, in particolare, prendono il titolo da due racconti di O’Connor.

Springsteen visse un approccio conflittuale con l’educazione cattolica che gli fu imposta a scuola e al catechismo, al punto che nell’adolescenza si allontanò dalla religione e in alcune delle sue primissime canzoni – quasi tutte rimaste inedite – rappresentò in modo dissacrante e caricaturale le figure del Vangelo. Nei suoi dischi, tuttavia, il cantautore ha fatto ricorso di frequente a immagini bibliche tratte dal cattolicesimo e più spesso dalla cultura protestante americana, impiegate per la loro carica emozionale più che per i contenuti teologici. Il fiume, presente in numerosi suoi testi, è per esempio un elemento salvifico che rimanda al battesimo per immersione tipico delle chiese evangeliche; la «terra promessa» è la destinazione, spesso irraggiungibile, di molti viaggi descritti nelle sue canzoni, ma è anche sinonimo della «terra delle possibilità» a cui si riferisce il concetto del «sogno americano». Così la «promessa infranta» e il «prezzo da pagare», altre figure molto utilizzate, rappresentano l’esito disilluso di questa ricerca.

I personaggi pittoreschi e improbabili che popolavano le ambientazioni urbane dei primi dischi hanno subito una rapida evoluzione verso un maggiore realismo, lasciando progressivamente spazio a persone comuni afflitte dai medesimi problemi economici o familiari che Springsteen aveva conosciuto attraverso i suoi genitori e i suoi amici. A partire da Darkness on the Edge of Town, la precarietà e la mancanza di lavoro si sono affermate come soggetti ricorrenti nei suoi testi, al punto che Springsteen – anche con riferimenti politici espliciti, seppur non del tutto pertinenti – iniziò a essere definito «l’eroe della classe lavoratrice» («working-class hero»), essendo identificato come l’artista che dava voce a quella grossa fetta della società americana nota come «blue collars» (i «colletti blu», ovvero gli operai con la tuta da lavoro, in contrapposizione alla categoria dei cosiddetti «colletti bianchi»).

Il tòpos della fuga, soggetto centrale in Born to Run, fu in seguito declinato come volontà di lasciare l’insicurezza finanziaria e l’iniquità sociale alla ricerca di migliori condizioni di vita, collegandosi all’idea originaria del «sogno americano» che secondo Springsteen consiste essenzialmente nella speranza di «vivere qui come una famiglia, dove i forti possono aiutare i deboli e i ricchi possono aiutare i poveri. Sapete, il sogno americano, e non credo si intendesse che tutti avrebbero fatto un milione di dollari». La mancata concretizzazione di questa prospettiva è divenuta l’argomento di molte canzoni a sfondo sociale a partire dagli anni ottanta: con l’album The Ghost of Tom Joad, in particolare, il cantautore descrive la condizione di coloro che hanno sofferto le conseguenze della grande depressione degli anni trenta (con echi di Steinbeck e Guthrie) e la sorte del tutto analoga dei disoccupati e degli immigrati clandestini messicani degli anni novanta. Dopo l’ottimismo di Working on a Dream del 2009, in cui il musicista esorta gli ascoltatori a spendersi per la realizzazione del «sogno» incarnato nella figura del presidente Barack Obama, il tema della promessa non mantenuta tornò a essere centrale tre anni dopo nel disco Wrecking Ball.

Nel complesso, i testi di Springsteen mostrano «diverse facce dell’America, compresi i suoi aspetti maledetti, la sua parte di sconfitta». Tuttavia le sue canzoni sono sempre pervase da un messaggio di speranza, da una fede venata di religiosità nella possibilità di avverare i desideri individuali e collettivi.

[Wikipedia]

ALIENAZIONE

a. Nel linguaggio filosofico, il termine è stato assunto a indicare in genere il trasferimento (effettivo o apparente, avvenuto o presunto, spontaneo o imposto) di qualche cosa di significativo, costitutivo o essenziale, da un centro di riferimento o di possesso ad altro, nell’ambito culturale e vitale della soggettività umana.

b. Nel pensiero di Marx e nel marxismo si insiste sull’estraniazione (o anche lo spossessamento) del prodotto del proprio lavoro a cui l’operaio salariato è costretto dai rapporti di produzione capitalistici e in partic. dal capitalista che ne compra la forza-lavoro.

c. Nella psicanalisi post-freudiana, e nella scuola sociologica di Francoforte, le riflessioni sull’alienazione di sé, della propria natura e della possibilità di crescita interiore, che l’uomo compirebbe nell’economia e nella società dei consumi preferendo l’avere all’essere.

d. In un’accezione più corrente e meno specialistica, lo stato di estraniazione, di smarrimento dell’uomo che, nell’odierna società e civiltà tecnologica, e nell’organizzazione dei ritmi della vita, si sente ridotto a oggetto, e pertanto colpito nella propria identità e strappato alla propria autenticità. In partic., con riferimento all’attività lavorativa, senso di indifferente e quasi ostile estraneità al proprio lavoro, provocato soprattutto dalla mancata conoscenza delle sue effettive finalità, oltre che dal carattere macchinoso e ripetitivo, rigidamente predeterminato nei suoi modi e nei suoi ritmi, che ha spesso il lavoro, spec. nelle fabbriche.

(Treccani)

Ogni volta…

Ogni volta che indosso quelle scarpe pesanti
e poi mi dirigo al lavoro,
ogni volta che entro in quel capannone grigio
e ricomincia il turno…
 
Ogni volta,
la vetrata,
i guanti, il cartellino…
 
Ogni volta che sospiro,
ogni volta che ci penso…
Ogni volta, forse, farei meglio a smettere di sperare in un giorno migliore.
 
(8° capitolo, Sulla strada della Follia)
 
Marco MR ©

Ciabatte, calzino e pigiama

Camminavo in ciabatte quel giorno,
un giorno come tanti.
Un calzino sì e uno no.
L’avevo smarrito nel letto
e non avevo voglia di cercarlo.
Pigiama coi buchi e maglia sformata…

Ero in casa, ma mi toccava uscire per andare al supermercato.
Dovevo cambiarmi prima…
Di certo, non potevo andarci in quelle condizioni.

Ciabatte,
calzino e pigiama:
sono uscito,
due passi in giardino e…
sono tornato indietro
per cambiarmi.

Non sono libero.

Marco MR ©

Immaginazione…

Immaginazione…

Sarebbe bello lavorare in una vecchia libreria… una di quelle piccole, dove i libri son tutti ammassati e per trovarne uno devi per forza andare a memoria.
Passare il tempo a spolverarli e poi fermarsi tra le pagine ingiallite di un caro amico mai dimenticato.
Luci basse, barba lunga e cappello di lana… perché là dentro i riscaldamenti non funzionano.

Entra qualcuno di tanto in tanto. Guarda il tutto come fosse la fine della vita, lo squallore negli occhi, e poi esce, indifferente.
Non ha comprato nulla. Forse cercava l’ultimo libro di…
Allora, ritorni al tuo lavoro, sereno, tra puzza, polvere e poesie.

Baudelaire e Verlaine,
Kerouac, Ginsberg, Fante, Bukowski… è tutto così Dannatamente perfetto.

Nelle mie fantasie non sono mai solo.

Marco MR ©

“Un Horror Show continuo”

“Un Horror Show continuo”

Adesso è il periodo delle cene. O dei pranzi. 
È il periodo del dovere… far vedere. Sei adulto, più maturo… credono, vorrebbero. Sei pronto a prendere tutto per mano, la situazione, e fare… come loro. Imitare: lavoro, casa, famiglia, fidanzata, cena, anello, diabete. Non ce la faccio… al sol pensiero mi sento soffocare da tutta questa (a)normalità. Routine limitante. Voglio il divorzio da questa vita. Rate e sveglia… mamma mia, che inferno. Sempre di corsa, sempre in ritardo… Io, questi ritmi, non li reggo. Voglio farla finita. Sparire. Ciao a tutti, è stato bello, ma io, davvero, a questo gioco non voglio più giocare.
Imitazioni sociali. Ventenni che giocano a fare i grandi, quarantenni che giocano a fare gli adolescenti. Vomito (su di loro, magari). E i vecchi? Non ci stanno capendo più nulla. È tutto troppo! È misantropia!

“Un horror show continuo”, diceva lo scrittore a me più caro.

Diabete e vomito.
Questi qua… c’è quello che sa tutto e quello che vuole troppo. C’è quello che non se ne frega niente di niente e quello che… c’è diventato pazzo. A furia di, a furia di… cercare un cavolo di senso. A tutto questo, all’imitazione, al rincorrersi, al perseguire e fallire, alla casa, al mutuo, alla stanchezza perenne… Perché devi sentirti così stanco?
C’è quello che è diventato pazzo, perché così, pensava, non può esser normale; proprio, eppure… eppure, tutti dicono sia normale. È normale. È diventato pazzo, perché stanco alla sera, rinunciava lo stesso al sonno per la disperazione, rinunciava lo stesso al sonno per trovare una qualche soluzione, ma niente: questa qua non arrivava mai.

Marco MR ©

Loro non lo sanno

Mi chiamano asociale.
“Non esci mai. Cazzo ci stai a fare sempre chiuso in casa?”
Non esci mai.

Sogni assaporati,
ricordi divorati,
cene rimandate:
è la follia…
è la socio-fobia.

Loro non lo sanno,
non possono capire. E questa maschera…
Loro non lo sanno,
pensano sia tutto facile!
Uscire a prendersi un caffè, è facile.
Mangiare,
incontrarsi e conoscersi. Parlarsi e divorarsi…

Le ho regalato un fiore una volta.

Mi vogliono alle loro feste, ai loro anniversari…
E a me farebbe anche piacere andarci, ma…
non è un esame, non è un pregiudizio: è un abisso nell’inconscio.
Non posso mettere tutte le volte quella maschera.
Non posso mettere tutte le volte la maschera della forza,
della normalità,
dell’abitudine.
Della sanità mentale.

Fa troppo male.
Mi comprime, mi tortura.

Marco MR ©

 

Puoi votare questa poesia cliccando qui:

http://settegiornidifollie.altervista.org/2015-2/mascherare-lanima/loro-non-lo-sanno-di-marco-ruggiero/?doing_wp_cron=1423996807.2472870349884033203125